Prima o poi sarebbe dovuto accadere

Come al mio solito ho deciso all’improvviso di fare un’escursione: sentivo il bisogno di vedere un po’ di verde e soprattutto sentire un po’ di fresco.

Sono uscito in macchina verso le 14:30 per dirigimi verso i Monti Lepini, meta: Bassiano. Il tragitto in macchina è lungo, un’oretta e mezza circa d’auto ma l’attesa, speravo, potesse essere premiata dal buon meteo e da quello che si può ricavare da una sana e buona attività fisica.

Questa è la mia seconda visita al percorso (la prima fatta in inverno lo scorso 19 Febbraio), quindi so cosa mi aspetta e so quanto possa essere duro se lo si vuole affrontare, come devo, con i minuti contati: prevedo di mettere lo zaino in spalla e prendere il sentiero per le 16, con l’obiettivo di impiegare meno di 4 ore per salire e scendere.

Ho parcheggiato al Fontanile Valle Sant’Angelo. Non molto distante da lì si trova l’imbocco del sentiero, il 710, che porta in vetta a Monte Semprevisa (Cima Nardi).

Il sentiero sale ripidamente, seguendo, nel senso inverso, il percorso che l’acqua fa dalla sorgente di montagna per arrivare al fontanile di valle. Dalla strada asfaltata il sentiero entra subito nel bosco per uscirvi ogni tanto per mostrare il cielo, che appare completamente visibile solo definitivamente al raggiungimento del Fontanile Sant’Angelo. In questo primo tratto, seppur con le difficoltà relative alla natura del fondo, il sentiero risulta invece piuttosto semplice da prevedere, poiché segue lo stradello che costeggia, a mezza costa, le casette dell’acquedotto. Partito da Roma, cercavo con speranza il fresco del bosco, o della quota, ma nemmeno qui la mia anima trovava ristoro: il caldo umido mi perseguitava, tanto che a fine giornata, facendo il bilancio di acqua bevuta, mi accorgo, non certamente con meraviglia, che avevo assunto dalla mia sacca idrica più di 3 litri.

Arrivato al fontanile Sant’Angelo, mi tolgo la bandana, mi lavo il viso, mi bagno i capelli, e prima di rimettermi la bandana la inzuppo di acqua sorgiva. Quell’acqua, sì, che è stato un vero e proprio respiro di sollievo. Faccio un rapido spuntino con cioccolata fondente e dopo una ricca bevuta, mi sento di nuovo pronto per riprendere la salita.

In quel punto, uscendo dal bosco, il sentiero cambia natura, inerpicandosi tra gli spazi concessi dagli unici cespugli che riescono a sopravvivere in un ambiente tanto ostile, fatto solo di pietre.

Il sentiero ormai è simil-ghiaione,  tanto che mi trovo impantanato come nell’inverno scorso: è difficile prevedere, intravedere o leggere il percorso segnato bianco-rosso in mezzo a tutte quelle pietre che cambiano posizione ad ogni passaggio di uomo o animale.

Dopo qualche istante di esitazione trovo, anche con l’aiuto della memoria, la giusta e chiara direttrice per l’arrampicata. Questo tratto, seppur breve, è ripidissimo e termina su una mulattiera che, ahimè, per gli amanti del trekking, è solo da tagliare ortogonalmente e attraversare.

Il caldo e la leggera brezza avevano già asciugato la bandana e i capelli, ma ora il vento rendeva tutto più sopportabile.

Mi sembra che la marcatura del sentiero sia molto migliorata dall’inverno scorso, ma in alcuni punti risulta comunque un po’ più difficoltoso prevedere dove si possa nascondere il segno successivo; così, ai piedi di un roccione, allungo la vista per cercare di nuovo la direzione del sentiero perso.

Cerco del rosso in mezzo a tanta roccia bianca e al verde dell’erba, e mentre faccio questa riflessione, alla ricerca della marcatura, noto, non molto lontano, qualcosa di rosso-arancione: non un segno sulla roccia, ma un grazioso segno della natura.

Lì, tra l’erba e i piccoli cespugli di rovi, aveva messo le radici una piccola famiglia di gigli di San Giovanni.

Con grande meraviglia scatto qualche foto, lasciando momentaneamente i bastoncini da trekking; preso dall’entusiasmo di aver scoperto tanta bellezza, proseguo il sentiero, dimenticando i citati bastoncini piantati lì nei pressi dei gigli.

Quando me ne accorgo, ero troppo lontano dalla vetta di Monte Semprevisa per proseguire senza e troppo vicino al luogo dei gigli per non tornare a riprenderli.

Dovevo scendere rapidamente a recuperarli se volevo salire altrettanto rapidamente per raggiungere la cima prima che la luce fioca del tramonto si abbattesse sul lato boscoso del monte.

Facile è scendere, ma non lo è altrettanto salire; malgrado l’imprevisto, riesco comunque a raggiungere il Rifugio Liberamonte e oltrepassarlo.

Prima o poi sarebbe dovuto accadere, e ieri è successo.

Ai due terzi del percorso, quando l’occhio riesce a vedere la sella e la cima di Monte Semprevisa ho avuto come un brivido. Milioni di pensieri in conflitto tra loro e con me stesso avevano eletto due leader: da un lato la Montagna con il suo richiamo suadente e primordiale, dall’altro la coscienza che mi ricordava ripetutamente e con insistenza il troppo tempo perso nel tragitto, i troppi imprevisti, la mancanza di un compagno di viaggio e tutto quello che non ero riuscito a prevedere o a valutare. Per la prima volta, questa volta, e in questa circostanza, il rigido tiranno razionale stava vincendo sulla spensieratezza quasi anarchica della natura. Pian piano mi sono sentito costretto ad interrompere il cammino, rinunciando di fatto al raggiungimento del obiettivo: la Vetta.

Ad aggiungersi al turbinio delle sensazioni e pensieri di cui ero posseduto c’è stato l’assistere ad una scenetta che lì per lì, mi ha un po’ scosso e turbato. È stato questo che, molto probabilmente, mi ha definitivamente convinto a scendere, infliggendo così il colpo più duro al mio orgoglio sportivo.

Mancava poco che entrassi nel bosco con l’ultima salita, quando, proprio dal quel bosco, uscì un gemito forte e chiaro, come quello di un vagito di un bambino. Non era possibile perché era così potente da riecheggiare tra le pareti delle montagne vicine. Non mi resi ancora conto cosa potesse essere, così mi fermai in attesa di qualche indizio che mi suggerisse il da farsi: avanzare? sostare? retrocedere? ai mille dubbi che avevo, ora si aggiungevano questi: un misto di attesa, allerta e apprensione.

Nel frattempo uno stormo di cornacchie, facendo un gran baccano, iniziava a volteggiare sulla sommità dell’albero in direzione di quei gemiti forti e incessanti, e solo allora ho potuto realizzare: i gemiti si fermarono improvvisamente e dal cespuglio sottostante quell’albero vidi una volpe in fuga a gambe levate, seguita da un baldanzoso cinghialetto orgoglioso di aver ottenuto quella vittoria.

Costretto a prendere a malincuore questa scelta, decido di tornare indietro, ma senza fretta; ora di tempo ne avevo per fare le cose con calma e per gustarmi il panorama e il paesaggio.

C’era foschia ma riuscivo a vedere fino al Circeo, a differenza di questo inverno: mi prendo del tempo per qualche scatto, dopodiché imbocco il 710 dal rifugio.

Scendendo verso il Fontanile, a quell’ora ho trovato una piccola mandria, quest’inverno di cavalli, adesso di mucche che erano lì ad abbeverarsi dopo una giornata torrida; per non disturbare ho fatto una piccola variante al percorso così da riprendere il sentiero che rientrava giù nel bosco.

Nello scendere mi sono accodato ad altri escursionisti della domenica con cui ho condiviso il tratto finale fino a valle.

Scendendo giù al parcheggio, un uomo, al Fontanile, riempiva cassette di bottiglie d’acqua. Ho immaginato che fosse accompagnato probabilmente da sua moglie e da suo figlio, ancora inabile alla camminata. Lei e il piccolino dalla sommità del parcheggio guardavano giù nel fosso in direzione del fontanile, attendendo la fine dell’operazione di riempimento.

Incuriosito, sono sceso anche io, ho chiesto conferma della potabilità di quell’acqua e a domanda retorica è seguita risposta affermativa; l’uomo mi confermava ulteriormente che anche l’acqua del Fontanile in quota lo era.

Con fantastico piacere mi ha invitato a prenderne e a berne, così ho approfittato per riempire nuovamente la mia sacca vuota.

La cordialità di quell’uomo aveva improvvisamente capovolto il sentimento predominante della giornata, facendomi rendere conto che avevo sì perso un’occasione, ma avevo trovato rifugio in quell’uomo ignaro del mio conflitto interiore.

Contraccambio la cordialità congedandomi da lui e dalla donna e salutando vezzosamente il bambino.

Mi rimetto in macchina, sereno e col sapore in bocca dell’acqua genuina di sorgente.


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