Finire ciò che si era iniziato

In questo articolo non vi parlerò dei dettagli iniziali: vi basterà sapere che ho messo la sveglia alle 7.45 ma che alle 6 ero già in piedi.

Il mio corpo e la mia mente fremevano dal desiderio di completare ciò che era rimasto incompiuto.

Vado per riprendermi la rivincita sul sentiero, sulla montagna, ma ancora di più su quella parte di me che vuole demolire una volta per tutte la mia autostima.

Ci riprovo di nuovo, quindi, destinazione Bassiano con le stesse modalità: salire e scendere dal Semprevisa in meno di 4 ore.

Prima di riprendere il racconto da lì dove avevo lasciato il sentiero, giusto giusto una settimana fa, ho bisogno di farvi sapere che stavolta ho imboccato il 710 verso le 8 e che i gigli nei pressi del rifugio erano ormai appassiti e ridotti ad uno stecco giallognolo.

Per chi di voi si fosse perso nel labirinto tra realtà e racconto dell’ultimo articolo (Prima o poi sarebbe dovuto accadere), vi ricordo che ero giunto sul pianoro di Campo Rosello; è da qui che oggi riprenderò.

Il sentiero da Campo Rosello che, solo ultimamente ho scoperto essere raggiungibile comodamente anche dalla mulattiera, sale a serpentina verso la sella tra Monte Semprevisa e Monte Ardicara.

Differentemente da quest’inverno il pianoro, che poi tanto piano non è, si è riempito di cespugli di rovi e il sentiero lo si riconosce a tratti poiché è ridotto a solco di 20-30 centimetri nella terra così da non permettere alla vegetazione di metterci le radici.

Le sorprese sono sempre dietro l’angolo. Salendo, nascosta dietro una folta vegetazione, una mandria di cavalli allo stato brado aveva occupato un lungo tratto del sentiero, ma di questo non c’era da stupirsi, in fin dei conti ero io lo straniero nel loro territorio. Lo stupore e la meraviglia arrivarono più tardi in ciò che, da lì a poco, il sentiero mi avrebbe mostrato davanti agli occhi.

I cavalli sono degli animali graziosi e, anche se selvaggi, non mi intimoriscono perché li associo ad un periodo stupendo della mia infanzia.

Da bambino li ho frequentati molto, talvolta anche senza custodia, io e loro in solitudine. In quei momenti mi conquistavo il permesso di coltivare il mito degli indiani pellerossa, tra cui la cavalcata a pelo; ma poiché non mi risultava così comoda, un giorno iniziai a cimentarmi in acrobazie che, a ripensarci bene, erano più da circo che da Apache, Cheyenne e Sioux. Ma da piccoli ci si possono permettere certe licenze, come il confondere gli uni con gli altri.

Mi mettevo con loro nel recinto del maneggio, salivo su uno di loro, in genere quello più basso o altrimenti mi facevo aiutare dallo steccato, e dalla groppa passavo sul posteriore mettendomi in piedi.

Una volta, così era l’usanza tra i butteri, ho dovuto anche pagar da bere per una caduta da cavallo, ma non tutti sanno che caddi perché stavo perfezionando il mio salto da uno all’altro in movimento: è bastato che che uno di quelli si fosse spostato di pochi centimetri rispetto al previsto, che la traiettoria del salto non riuscisse, e così, boom! Scivolai a terra.

Cin-Cin! Per fortuna senza gravi conseguenze se non un grosso livido sulla gamba per giorni.

Una cosa che non dimenticherò è stato poi l’aver partecipato all’intera gestazione, con relative ecografie, di Sara, così si chiamava la cavalla. Ovviamente al parto, a nessuno è stato possibile essere presente: Sara si allontanò nella notte partorendo in tranquillità in un posticino lontano dai nostri occhi indiscreti. Al mattino seguente giunse al telefono la bella notizia e lì al maneggio, con gran stupore e meraviglia, vidi per la prima volta una puledra di poche ore: Liquirizia.

Lo stesso sentimento di stupore e meraviglia aveva ripreso vita proprio lì su quel sentiero; dietro ad un cespuglio si nascondevano infatti una cavalla e il suo puledrino, così piccolo che a stento si teneva in piedi, forse di poche ore, al massimo di un giorno.

Il tempo di qualche scatto e poi sentitisi un po’ infastiditi dalla mia presenza, mi hanno lasciato pian piano passare.

Il sentiero da lì si fa tortuoso e ripido e nemmeno gli stretti tornanti riescono ad alleggerire la percezione del peso dello zaino; in quelle condizioni se non si posa bene il piede su una roccia solida è frequente rischiare che il passo non raggiunga il suo scopo e quindi rimanere lì dove lo si era iniziato.

Guardando verso il cielo è tutto aperto, ogni tanto si incontrano degli alberi con il segno del bianco-rosso ma la meraviglia è raggiungere la sella e vedere la maestosa faggeta.

La faggeta è un bosco dagli alberi altissimi e in estate le foglie sui rami sono talmente fitte che, dalla cima di queste imponenti piante, cala un’ombra che scendendo si fa via via sempre più intensa fino a raggiungere il suolo.

La faggeta è come uno specchio, non riflette l’immagine del corpo ma quello che hai in quel momento nell’anima e per questo bisogna affrontarla con serenità, serietà e rispetto. In questo senso può anche far paura se la si affronta con animo insicuro e timoroso: ogni scricchiolio, ogni fruscio di foglie può mostrarsi e manifestarsi come una debolezza dello spirito e farti cadere in uno stato di paranoia, panico, sgomento, un sentimento di perdizione e di confusione.

Quello che faccio prima di entrarvi è pensare a qualcosa di bello, sereno e piacevole. In mancanza d’altro, mi affido ai colori: al rassicurante verde delle foglie o al solido e uniforme colore azzurro del cielo.

Il cielo oggi è così triste che non posso affidarmi a lui, tuttavia proprio quel tempo trasforma il colore delle foglie della faggeta in un’immensa macchia di color verde smeraldo di un saturo senza precedenti che nemmeno una fotografia sa rappresentare.

Raggiunta la faggeta la costeggio, un po’ per rispetto, un po’ perché, a differenza di questo inverno, ho notato una variante del sentiero che prosegue lato cresta e ne approfitto per vedere di cosa si tratti anche se, a differenza dell’altra, continua ancora a salire.

Il sentiero mi sembra sicuro anche se risulta essere stretto tra la parete della montagna da un lato e dall’altro lo strapiombo sulla pianura pontina. Il vento poi, a tratti anche forte, destabilizza, ma anche se il tempo meteorologico non permette di apprezzarlo fino in fondo, il paesaggio da lì è magnifico, è visibile ad occhio nudo tutto ciò che è sulla pianura pontina.

Una descrizione accurata mi viene suggerita da una targa, che posso solo intuire a quale memoria sia dedicata e che è affissa nei pressi di quella parete rocciosa: «Qui… dove la brezza del mare incontra il silenzio della montagna ci sei tu caro amico»

Un saluto all’amico, con la posa di un sassolino, e uno al paesaggio, poi proseguo sotto l’invito del vento ad uscire per riprendere la cresta e raggiungere la prima vetta.

Ho incontrato pochissime altre persone sul sentiero – tutte che scendevano – per lo più giovani montanari locali, che non turisti o atleti.

Dalla prima delle due vette di Monte Semprevisa (non so se questa su cui mi trovo abbia un nome specifico) posso vedere e constatare che sull’altra cima, quella con la croce, ora, è tutto deserto, non una persona con cui scambiare due parole.

Raggiunta, mi siedo sulle rocce ammassate nei pressi della croce e mi godo il meritato riposo con l’unico amico presente, il vento.

E’ difficile raccontare un paesaggio che ti avvolge di 360° tutto intorno ma al contempo è facile vedere movimenti in lontananza come il sopraggiungere di altre persone.

All’improvviso sulla cresta difronte vedo una stanghetta arancione farsi sempre più chiara e nitida e avvicinarsi verso di me. Pian piano prende forma, riesco a definire una donna più o meno della mia stessa età, mi raggiunge, posa lo zaino nei pressi della croce, mi saluta, scatta qualche foto, fa una telefonata e poi si congeda per ritornare indietro.

Solo più tardi scoprirò che era andata a recuperare altre due sue compagne con cane.

Pensavo di raggiungere la croce e fare uno spuntino ma non avevo fame poiché avevo già mangiato 25 grammi di cioccolato fondente presso il rifugio Liberamonte.

Ora di nuovo solo, immerso a tratti nella voce del vento e del suono particolare del silenzio, ne approfitto per scattare qualche fotografia al panorama. Inizio a percepire qualche goccia, anche la pioggia timidamente è venuta a farmi compagnia, non mi preoccupo, sono ben attrezzato, poi se ne va.

Dopo qualche momento mi convinco a scendere rapidamente in modo da poter raggiungere l’obiettivo di mantenermi sotto la soglia delle quattro ore.

Nello scendere, tre sono stati gli incontri che mi hanno particolarmente colpito: il primo è quello del cane delle tre ragazze che, sotto forma di gioco, mi aveva preparato un evidentissimo agguato con balzo. Il secondo è quello di una coppia di giovani che salendo mi hanno chiesto se in cima facesse freddo e a cui ho risposto di no se si fossero coperti dal vento; poi ho aggiunto che lassù sarebbe a breve iniziato a piovere. I due mi manifestarono che per loro non sarebbe stato un problema poiché stimavano di metterci una vita per raggiungere la vetta, e quindi a maltempo terminato.

Il terzo è stato l’incontro che, credo, mi abbia portato al raggiungimento dell’obiettivo. Ho notato una coda bianca sventolare come una bandiera dietro un cespuglio; lì per lì non mi resi conto di cosa fosse ma dopo qualche istante vidi che era un canuccio di piccola taglia, probabilmente randagio, intimorito dalla mia presenza. Si teneva a distanza di una decina di metri avanti a me e spesso si voltava a guardare indietro per tenermi, credevo io, sotto controllo. Ma nei pressi del Rifugio Liberamonte, cambiò improvvisamente atteggiamento, Accomodandosi all’ombra di un cespuglio ad attendermi. Visto il suo comportamento iniziale così schivo e poi così sicuro in quel momento, mi vienne il dubbio che non si girasse per me ma… per qualcun altro: voltandomi, a una ventina di metri da me, un altro cane, questa volta di taglia molto molto più grande, mi seguiva.

Mi convinsi che era giunto il momento di mettere il turbo, seminare i due cani senza dare troppo nell’occhio, scendere rapidamente e tagliare il traguardo al parcheggio di fosso Sant’Andrea.

Quando ormai li avevo distanziati di parecchio, mi risultò inutile rallentare il passo poiché mi ero accomodato su quel ritmo.

Non sottovaluto mai la presenza di animali selvatici o il comportamento che ragionevolmente potrebbero avere, tuttavia reputo che sia più imprevedibile il comportamento di un animale domestico che non quello di un animale selvatico basato principalmente su due concetti «Territorio» e «Fame»: l’animale selvatico spesso è più sfuggente e più timoroso dell’uomo di quanto quest’ultimo possa immaginare.

Anche questa mia uscita termina al fontanile a valle ma con il cronometro che segna stavolta 3ore e 47min.

Fuochi d’artificio nel mio cuore!

Ricevo in premio la soddisfazione della rivincita e come un’ape assetata, pronta anche all’annegamento, mi fiondo a riscuotere una ricchissima e meritata bevuta dell’acqua della sorgente.

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